La perdita del feto e la sofferenza interiore patita dai genitori
La Suprema Corte ha accolto il ricorso di una coppia che ha agito per il risarcimento del danno conseguente alla morte, alla 31° settimana di gestazione, del feto.
La morte era conseguenza dell’omessa e tempestiva diagnosi di una ipossia fetale e della mancata esecuzione del taglio cesareo, il quale avrebbe, con elevata probabilità, salvato il nascituro.
La condizione ipossica del feto era diagnosticabile dal rilievo di una frequenza cardiaca irregolare, la quale, seppur monitorata, non ha condotto gli operatori sanitari ad intervenire prontamente.
I Giudici di Primo e Secondo Grado, pur riconoscendo la responsabilità della struttura ed il diritto al ristoro del danno patito, limitavano il risarcimento alla mera perdita del rapporto parentale, senza prendere in considerazione le specifiche sofferenze patite dalla coppia per la mancata genitorialità.
Inoltre, sia il Tribunale, sia la Corte d’Appello trascuravano numerosi aspetti di sofferenza allegati dai ricorrenti, nonostante la domanda risarcitoria della coppia prospettasse, fin dall’origine, l’esigenza di derogare ai limiti “tabellari” e di procedere secondo criteri di discrezionalità (equitativi puri), al fine di attribuire la piena reintegrazione del pregiudizio in presenza di specifiche circostanze concrete che rendevano inattuale ed inadeguata la valutazione tabellare del danno.
Le circostanze dedotte in sede di merito, infatti, afferivano la sofferenza interiore patita dai genitori in conseguenza della morte del feto (come il panico, gli incubi e il mutamento delle abitudini di vita), circostanze che venivano, del tutto illegittimamente, trascurate ai fini del risarcimento.
Gli elementi di sofferenza interiore richiamati, erano stati ritenuti, a torto, riconducibili ad un danno “assolutamente avulso rispetto alla domanda di risarcimento formulata ex art. 2059 c.c.” mentre, come correttamente rilevato dalla Cassazione, tali elementi di pregiudizio costituiscono “assai frequentemente l’aspetto più significativo del danno de quo“.
Sul punto, i Giudici Territoriali, anziché considerare raggiunta la prova della particolare intensità della sofferenza morale patita, hanno trascurato l’allegazione del danno e la circostanza della prova dello stesso a mezzo di presunzioni semplici.
E’ stata la Terza Sezione della Corte di Cassazione che, con l’Ordinanza n° 26301 del 29.09.2021, ha posto al centro del diritto, dopo due gradi di giudizio, tutti gli aspetti della sofferenza patita dalla gestante (il panico, gli incubi notturni et al), aspetti che erano sufficientemente allegati in chiave risarcitoria:
…Aspetti, dunque, come il panico, gli incubi e il mutamento delle abitudini di vita, conseguenti alla morte del feto in utero, non possono considerarsi affatto come un tipo di danno "assolutamente avulso rispetto alla domanda di risarcimento formulata ex art. 2059 c.c.", risultando tale affermazione errata in diritto, come errata appare quella secondo cui "altro sarebbe il danno non patrimoniale causato dalla perdita del frutto del concepimento, e ben altro sarebbe invece il danno consistente negli strascichi che quel lutto abbia lasciato nell'animo dei protagonisti". Nel riconsiderare tali aspetti del danno lamentato dai ricorrenti, il collegio di rinvio terrà altresì conto di quanto di recente affermato da questa stessa Corte (Cass. 8887/2020) in tema di danno da perdita del rapporto parentale, valorizzando appieno l'aspetto della sofferenza interiore patita dai genitori (Cass. 901/2018, 7513/2018, 2788/2019, 25988/2019), poiché la sofferenza morale, allegata e poi provata anche solo a mezzo di presunzioni semplici, costituisce assai frequentemente l'aspetto più significativo del danno de quo..…
Concludendo, i Giudici di Legittimità hanno affermato che il vero danno nella perdita del rapporto parentale, non è limitato al venir meno del rapporto, dovendosi esaminare i profili della sofferenza, ossia il dolore, generati da tale perdita.